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Alvito. Le epigrafi a Mario Equicola e ai ventuno provvidi cittadini.

di LUCIANO SANTORO



[tratto dal Quaderno dell’Archeoclub Val di Comino n.2, 2019]


La storia degli uomini, afferma Lamennais, è scritta sui monumenti e il loro studio è il capitolo più ricco d’insegnamenti che offre la storia del genere umano.


Lo stile necessariamente lapidario di quelle comunicazioni suscita il desiderio di saperne di più, di conoscere ragioni e circostanze in cui si produssero gli eventi affidati alla pietra. A volte, però, è come andare in cerca dell’oro: si scava tanto e se ne trova assai poco.


Così non è stato, però, per le due epigrafi marmoree delle quali l’Archeoclub d’Italia – Sezione Val di Comino e l’Amministrazione di Alvito, in felice joint-venture, hanno voluto far memoria il 29 aprile 2017. L’una dedicata a Mario Equicola (1470-1525) trasporta il pensiero all’età feudale, l’altra ne rievoca la fine commemorando i ventuno Provvidi Cittadini che nel 1839 promossero l’acquisto del palazzo ducale per assicurarne la proprietà al Comune.


Dettate dal prof. Domenico Santoro (1868-1922) [fig. 1], scolpite in Napoli sotto la direzione del prof. arch. Silvio Castrucci (1854-1919), esse furono inaugurate il 29 settembre 1907 nel corso della Festa Equicolana indetta dal Municipio di Alvito, in occasione delle solenni celebrazioni in onore del patrono San Valerio, ricordata nel prezioso Numero Unico [fig. 2] edito per l’occasione, ristampato in anastatica nel Memorial Day Archeoclub Val di Comino (n.d.r.) del 29 aprile 2017 unitamente al saggio del Santoro “Il viaggio d’Isabella Gonzaga in Provenza” (dall’Iter in Narbonensem Galliam e da lettere inedite di Mario Equicola), grazie al mecenatismo culturale del dr Giovanni Iaquone da Vicalvi [fig. 5].


Per l’organizzazione della cerimonia e il collocamento delle iscrizioni lapidee [fig. 3] il sindaco cav. Anastasio Castrucci (1852-1925) nominò una Commissione presieduta dal cav. Vincenzo Mazzenga (1863-1942), Consigliere della Deputazione Provinciale di Terra di Lavoro, composta dal dr Valerio Castrucci (1864-1945), ins. Ettore Persichetti (1870-1934), prof. Vincenzo Santoro (1876-1913) e dal nominato prof. Domenico Santoro, segretario.


Oratore ufficiale della manifestazione fu l’illustre critico letterario prof. Francesco Flamini (1868-1922), docente di letteratura italiana all’Università di Padova [1], coetaneo e compagno di studi nell’Ateneo pisano dell’avo paterno di chi scrive.


Come può leggersi sul richiamato Numero Unico, grandi firme aderirono a quella celebrazione che fu preceduta e seguita dalla pubblicazione di opere importanti per la nostra storia letteraria e civile e contributi pregevoli, presenti anche in questo Quaderno (n. 2, n.d.r.), concorrono a tener viva la memoria di Mario Equicola che legò durevolmente il suo nome alla cultura del Rinascimento e il sentimento di gratitudine del nostro popolo verso i Provvidi Cittadini i quali vollero impedire che nella dimora dei feudatari di Alvito si insediassero privati.


Ricostruiamo l’atmosfera di quella memorabile giornata con le parole del concittadino avv. Francesco Saverio Castrucci (1852-1935), regio Prefetto di Girgenti (Agrigento), presente in Alvito per la vacanza estiva, invitato a tenere nella Sala del Teatro il discorso inaugurale della cerimonia giuntoci in copia manoscritta.



«Due scopi – disse – ha la cerimonia presente; benché diversi d’importanza tuttavia nobilissimi entrambi, i quali, nell’intento di rendere omaggio e spronare alle virtuose opere, si fondono mirabilmente insieme. Accenno al primo.


Quattro secoli orsono, nel giro appunto di questi anni, il grande Mario d’Alvito, il quale dai popoli che si riteneva avessero in antico abitato queste contrade prese il nome di Equicola, era nella piena manifestazione della sua multiforme attività che andava con versatilità maravigliosa dalla poesia alla storia, dalla didascalica e dal magistero alla diplomazia.


Di quel grande nostro concittadino, esule fin dalla giovinezza da questa sua terra natale, pareva di qui esulata ogni memoria. Non qui discendenza alcuna di Lui perché l’illustre famiglia Prudenzii da cui discese per parte di donna, come in principio del 1600 lasciò scritto Gia. Paolo Mattia Castrucci, andò in rovina e non è più fra noi.


Nessun luogo qui che Lo rammenti; perocché la torre da cui probabilmente prese il nome di Palombara il fondo circostante ch’Egli ebbe dalla munificenza del Signore feudale del tempo, è nota col nome de’ Prudenzi che col fondo ebbero ad ereditarla da Lui. Ed io solennemente oggi fo voto che quella torre, unica cosa che nella patria porta traccia dell’Equicola, venga restituita all’antica austera rusticità primitiva e sia a Lui dedicata con lapideo ricordo. E son certo che l’uomo egregio e facoltoso, il quale non nega alla patria le sue energie, il cav. Vincenzo Mazzenga, non farà venir meno il mio augurio; sicché meglio ci parrà di rivedere quel grande affacciato alla vecchia bifora, quasi nume presente, auspicante ed incitante i suoi concittadini ad ogni opera di valore [2].


E nulla si ha qui di Lui oltre i pochi cimeli che un mio zio ebbe la fortuna e l’accorgimento di salvare dalla ruina che travolse la famiglia de’ Prudenzi e che si custodiscono gelosamente. Poiché tranne il troppo avaro cenno fatto di Lui da Gia. Paolo Mattia Castrucci, nessun’altra memoria di quel grande fu qui tra noi prima che il laborioso nostro prof. Domenico Santoro ce lo ripresentasse nella sua vita e nelle sue opere.


Onde ben a ragione il nostro Consiglio Comunale ha voluto che a tanto cittadino non mancasse più oltre nella sua terra natale un pubblico ricordo fatto almeno in una lapide epigrafica, murata in questa casa ch’è di tutta la cittadinanza.


E bene a ragione ha voluto altresì che la fama di quel grande, rinverdita oggi nelle opere degli studiosi, fosse divulgata fra i concittadini di Lui mercé d’una pubblica conferenza per la quale ci ha fatto l’onore di tenere l’invito un esimio letterato, il prof. Flamini, il quale meglio e più competentemente vi sarà presentato dall’egregio nostro prof. Domenico Santoro.


A me il compito modesto di parlarvi del fatto a cui si riferisce l’altra lapide che anche oggi abbiamo scoperta al pubblico e ch’è lo scopo secondario della presente solennità.


Al principio del secolo passato il feudalesimo che aveva redenta la società dallo sconvolgimento barbarico ma che da tempo già aveva perduta la storica sua ragion d’essere, veniva abolito anche nel regno di Napoli da Giuseppe Napoleone e nello stesso tempo si spegneva nel suo ultimo rampollo maschile la famiglia ducale di Alvito, la lombarda famiglia dei Gallio, che portando qui il soffio civile di regioni più progredite aveva costruito questo nobile palazzo, il bel corso che, sapientemente architettato, della famiglia porta il nome, la maestosa porta Iacobelli ed altre opere vistose che per brevità tralascio.


Per cessione fra gli eredi delle due sorelle dell’ultimo Gallio i beni di costoro andarono in proprietà della casa ducale Pignatelli di Montecalvo nella quale era maritata la seconda delle due, mentre il titolo ducale di Alvito era passato nell’altra casa principesca di Carafa di Maddaloni, in cui era maritata la prima. Ma non tardò molto e quei beni, per la vicenda che affatica anche le più grandi ricchezze, furono espropriati e venduti agli incanti. E così avvenne che nella pubblica asta del febbraio del 1839 [3] nel Tribunale di S. Maria di Capua, questo palazzo fu provvisoriamente aggiudicato per ducati 5618 e grana 40 a’ sig.ri Pietrantonio Sipari (1795-1864) di Pescasseroli e Marco Graziani (1819-1874) di Villetta.


La notizia che ne corse qui, tarda e vaga, commosse la cittadinanza: le pareva riadombrato il feudalesimo nelle persone di privati proprietari ed abitatori del vecchio palazzo feudale in cui, d’altra parte, aveva vagheggiata una splendida sede per tutti i pubblici uffici ed un pubblico teatro nel salone maggiore.


Con la sovrimposizione della sesta parte del prezzo dell’aggiudicazione provvisoria si poteva impedire che questa divenisse definitiva ed aprirsi almeno una speranza nella conseguente nuova gara. Ma né il Comune era pronto a danari, né era da pensare che nei pochissimi giorni mancanti alla scadenza del termine per l’offerta di sesta si potesse ottenere la sovrana approvazione che al Comune era necessaria per la compera. Si era infatti al 4 di marzo e il termine scadeva il 7 [4]. In tali strette alquanti cittadini subitamente intendono e risolvono di fare essi la compera del palazzo per dare agio al Comune di procacciarsi il danaro e provvedersi dell’approvazione sovrana per ricomprarlo.


Fanno capo al sig. Vincenzo Mazzenga, bisavo dell’omonimo nostro Consigliere Provinciale, affinché voglia prestare l’opera e la somma necessarie al loro intento. Il Mazzenga fa buon viso alla richiesta e subito per mano del Notar Ferdinando Persichetti (1793-1871) si stipula solenne contratto col quale da una parte il Mazzenga s’impegna di depositare immantinenti l’offerta di sesta e di far sì che nella eventuale gara successiva il palazzo rimanesse aggiudicato ai costituiti cittadini, lui escluso, e dall’altra quei cittadini si obbligano di tenerlo indenne di tutte le spese giudiziali e stragiudiziali, anche se la compera non riuscisse di corrispondergli l’interesse sulla somma sborsata e si stabiliscono per guarentigia delle parti altri speciali patti che tralascio per non indugiarmi.


Tutto ciò, siccome appresi dalla viva voce dei miei vecchi che vi presero parte chi direttamente e chi indirettamente poiché attorno agli stipolanti erano altri cittadini spettatori ed incitatori. Tutto questo fu risoluto e stipolato il 4 marzo, a notte, come in congiura, quasi incombesse su quei buoni cittadini non solo il pericolo di non fare in tempo ma lo spettro iracondo del vecchio Feudatario minacciante all’audacia de’ vassalli di voler salire da padroni il suo scalone ducale e da padroni penetrare ed insediarsi nella sala del suo trono, in quella delle sue feste e fin nelle stanze sue familiari.


E l’atto notarile risente della subitanea risoluzione e della commozione del momento: vi si può infatti notare dove una ripetizione subito chiarita di equivoco, dove una rettificazione magari fuori posto e perfino qualche sottoscrizione subito dichiarata indebita di qualche cittadino presente, ma non stipolante. Erano 21 i cittadini costituiti per impegnarsi tra loro a favore del Comune e verso il signor Mazzenga ma alla sottoscrizione del contratto due si ritrassero e tre altri poi aderirono con privata scrittura e così furono 22: manifeste prove anche queste ritrattazioni e subitanee e successive adesioni del tumulto degli animi in quella notte [5]. Ed il signor Mazzenga adempì con impegno e con successo il compito che si era assunto perocché senz’indugio fece partire per S. Maria di Capua il figliuolo Giuseppe (1800-post 1864), che pure era fra i 22 coobbligati; il 7 di marzo (occorrevano allora 2 giorni da Alvito a S. Maria) l’offerta di sesta era depositata ed il 9 il Tribunale aggiudicava questo Palazzo all’offerente per ducati 6402 non essendovi stata gara.


Così il passo maggiore e più difficile verso la nobile meta era stato fatto.


Furono quindi iniziate le pratiche per ottenere al Comune la sovrana approvazione ad acquistare ma procedevano difficoltose e lente perocché troppo grave si trovava pel Comune la spesa di oltre 6000 ducati e più grave ancora l’interesse.


Ed allora per agevolare il conseguimento dell’intento il signor Mazzenga, dopo aver dichiarato che metà della somma occorsa era stata somministrata da uno de’ coobbligati, dal giudice G.B. Ferrante (1794-1864), propose d’accordo con costui di ricomprare insieme per ducati 1860 la parte occidentale e quella settentrionale del Palazzo esuberanti a’ bisogni del Comune e di ridurre l’interesse dal 10 al 7 ½ netto; ma chiese che il figlio Giuseppe e il signor Ferrante fossero liberati da ogni impegno derivante dall’istrumento del 4 marzo. Non ostante qualche difficoltà e qualche dissidente i cittadini obbligati assentirono; anzi dichiararono che, qualora il Comune avesse avuto la sovrana approvazione ad acquistare e quindi a sostituirsi nel mutuo con un interesse minore, la differenza dovesse rimanere a loro carico.


Si sciolse la solidarietà derivante dall’istrumento del 4 marzo, ognuno per la sua quota di mutuo dette ipoteca su propri beni in surrogazione di quella gravante sul Palazzo e previdero una divisione e ripartizione del Palazzo qualora fosse mancata la sovrana approvazione. Tutto ciò fu tradotto in contratto scritto con istrumento de’ 29 dicembre 1839 [6].


Ma finalmente dopo dieci mesi le ansie cessarono perché il 29 d’Ottobre del seguente anno 1840 il Re Ferdinando II di Borbone [fig. 4] concesse la sospirata approvazione e il 7 d’Aprile del 1841 quei buoni cittadini ebbero la gioia di stipolare, con atto del nominato notaio Carlesimo, la cessione al Comune di quanto pel Comune avevano comperato e conservato. Ma restò in essi il rammarico di aver dovuto sottrarre al Comune la parte occidentale di questo Palazzo (la parte settentrionale era quasi un accessorio); sessant’anni dopo quel rammarico di cui spesso i nostri vecchi facevano parola fu riparato dall’Amministrazione della Congrega di Carità la quale nel 1901 comperò appunto il lato occidentale di questo Palazzo e così ora esso interamente si appartiene a pubbliche amministrazioni, essendo reintegrato nella sua unità.


Con la cessione del 7 d’Aprile 1841 quei cittadini furono, ben s’intende, rilevati dal Comune del debito che avevano contratto per la compera dello stabile ceduto; ma furono rimborsati delle spese di contratto e di quelle giudiziarie e stragiudiziarie di compera e della differenza degli interessi tra quelli realmente pagati e quelli che loro furono ristorati dal comune alla ragione del 5 per cento? Ma quand’anche di tutto fossero stati rivalsi, non per questo può venir meno, né essere menomato punto il loro merito, se è vero che la bontà delle opere non va misurata alla stregua del costo in lire e centesimi. E di questo avviso fu nel 1841 la cittadinanza, la quale appena il fatto nobilissimo fu compiuto lo volle celebrato con un trattenimento accademico e ricordato con una epigrafe. Tuttavia, il trattenimento accademico ebbe luogo e l’epigrafe fu composta in latino secondo la voga del tempo.

Ma il proposito della lapide, non mandato subito ad effetto, fu dimenticato come suole accadere con lo svanire del fervore del momento. Non di meno il testé rimpianto Potito Santoro (1837-1906) che per tanti anni fu l’anima della nostra amministrazione comunale, riprese quel proposito e lo caldeggiò fin negli estremi della vita. Ebbene il nostro Consiglio Comunale seguendo quell’impulso deliberava che con la lapide ora scoperta fossero perennemente e pubblicamente ricordati per riconoscenza quei fieri e provvidi cittadini i quali con pronta e tenace risoluzione vollero e resero possibile che questo palazzo, un dì sede de’ duchi d’Alvito, non si appartenesse ad altri che alla cittadinanza francata dal dominio feudale».



Ma chi erano questi Provvidi Cittadini? [cfr. fig. 6] Essi rappresentavano l’intero tessuto sociale della nostra cittadina: benestanti, un magistrato, professionisti, un farmacista, artigiani, commercianti, due contadini e persino due sacerdoti. Tutti dimoranti in Alvito tra la Porta del Mercato Vecchio e il Castello: propriamente, al Cornone, Strada Piazza, Pelliccioni, Strada Maggiore, Piazzetta, Colle San Giovanni, San Biagio, Foria, Peschio e Castello. Segnaliamo, in particolare, il barone Alessandro Simeoni (1794-1863) che diverrà il primo sindaco di Alvito dopo l’Unità d’Italia e il decurione Pasquale Di Tullio (1804-1868) il cui figlio Domenico (1832-1871/6) nel primo censimento post-unitario è qualificato “Speziale manuale” qualità nella quale non è difficile scorgere il fondatore dell’attuale “Pasticceria Di Tullio”. Tra i detti cittadini e loro familiari vi erano inoltre “dilettanti operai” che nel tempo del carnevale e in altre occasioni festive erano autorizzati a rappresentare nella Sala del Teatro spettacoli recitativi e musicali “per divertire il paese”.


Il che spiega la ragione dell’inserimento tra i Patti e le Condizioni dell’atto di trasferimento della proprietà del Palazzo al Comune del 7 aprile 1841: «che la Sala addetta ad uso di teatro non potrà giammai e sotto qualunque causa destinarsi ad altro qualunque siasi uso, nessuno escluso ed eccettuato e ciò affinché il Comune abbia perennemente e mai sempre un teatro per tutte le conseguenze che ne derivano».


Ed è perciò che, come nel 1907, gli alvitani di oggi – in continuità d’intenti con quelli di ieri – hanno voluto far memoria di Mario Equicola e dei Provvidi Cittadini proprio nella Sala del Teatro e ci par giusto riprodurre in questo scritto l’immagine della dimora dei Mazzenga, allora in Strada Maggiore, ove nella notte del 4 marzo 1839 venne stipulato l’atto Persichetti che è alla base dell’acquisizione alla Municipalità del Palazzo col suo Teatro e il giardino pensile successivamente eliminato [fig. 7].


Per la cortese collaborazione anche fotografica ringrazio il dr. Guido Torresini e il dr. Lorenzo Arnone Sipari. Rinnovo la mia gratitudine al dr. Cesidio Iacobone, oggi non più fra noi, per la copia manoscritta del discorso del comm. Francesco Saverio Castrucci.





[N.d.r. in figg. 8 e 9 la Torre Palombara di Alvito prima e dopo il crollo.]


Hanno scritto sull’argomento:

· Santoro Domenico, Della vita e delle opere di Mario Equicola. Chieti MCMVI; Pagine Sparse di Storia Alvitana. Chieti, MCMVIII.

· Ricciardi Luigi, La torre ‘La Palombara’ in Alvito. In “Terra dei Volsci”, 1992, n. 1.

· Capitelli Raffaella, La Famiglia Sipari ad Alvito (1830-1905). Iniziativa economica e identità borghese in Terra di Lavoro dopo l'Unità. Bardi Editore. Roma, 1999.

· Arnone Sipari Lorenzo, Come Alvito vendicò gli abusi feudali. In Corriere del Sud Lazio. 15-1-2000. Inserto “La Cantina”.

· Quaranta Gabriele, Bagliori dal Passato. Il Palazzo Gallio di Alvito e i suoi Dipinti. Bardi Editore. Roma, 2003.



NOTE:

[1] Il prof. Flamini giunse in treno a Sora ove era atteso dall’amico Domenico Santoro che lo aveva proposto. Da lì “in botte”, come era familiarmente detta carrozzella da piazza, ad Alvito ove restò alcuni giorni ospite in casa Santoro. Ad oggi non è stato possibile reperire il testo del suo apprezzato discorso che il Municipio richiese per darlo alle stampe.

[2] Oggi la toponomastica alvitana ricorda Mario Equicola nel nome del Corso di accesso alla cittadina dal lato di Sora e della Rampa che lo collega alla antica Via Leone. Nel 1913 fu a Lui intitolato l’Istituto di Credito cittadino, poi Banca della Ciociaria, Credito Agrario, oggi Credito Valtellinese. Sul piano degli studi, a cura del Centro Studi Letterari Valle di Comino, è stato a Lui dedicato un importante Convegno Nazionale e brillanti tesi di laurea sulla Sua figura e la Sua opera sono state discusse nelle Università di Roma e Napoli. Nel 2010, ad istanza del Dirigente dell’Istituto Comprensivo Statale di Alvito a Lui dedicato, prof. Cesidio Cedrone, Poste Italiane ha autorizzato la riproduzione della Sua immagine, opera del M.o Mario Ritarossi di Alatri, su un annullo speciale in servizio pubblico temporaneo presso il Palazzo Ducale nell’ambito del progetto scolastico “La Città nel Calendario”. Dobbiamo invece deplorare la perdita dell’integrità della Sua storica “Torre della Palombara”, magistralmente studiata dal prof. Luigi Ricciardi, parzialmente crollata nella mattinata del 23 gennaio 2014. Se ne auspica vivamente il restauro o quantomeno un intervento conservativo del prezioso rudere.

[3] 25 febbraio 1839.

[4] L’offerta di sesta andava formalizzata entro il termine perentorio di 10 giorni da quello dell’aggiudicazione provvisoria, avvenuta il 25 febbraio.

[5] Come rilevato da Arnone Sipari in un suo scritto, non è facile computare il numero esatto dei Cittadini autori del nobile gesto variando sugli atti pubblici e privati susseguitisi in questa vicenda. Essi tutti costituiscono riferimento di alto valore civico per gli alvitani di oggi che hanno voluto ricordarli con immutata gratitudine.

[6] Notaio Giambattista Carlesimo da Casalvieri.

[7] Rectius: 30 Ottobre.

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