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Gli automi dell'organo di Saint-Antoine-l'Abbaye Arte e meccanica al servizio della musica sacra ai tempi di Mario Equicola

Aggiornamento: 15 mag

[a cura di FERDINANDO MARFELLA] - L'organo della chiesa di Saint-Antoine-l'Abbaye era situato a Saint-Roman-sur-Isère, fu costruito da un artigiano italiano nel 1515, ma fu distrutto nel 1572 a causa delle guerre di religione che imperversarono in Francia in quel periodo. Ce ne siamo interessati in occasione della presentazione della ristampa anastatica de "Il viaggio di Isabella Gonzaga in Provenza" di Domenico Santoro, edito da Arbor Sapientiae. [1]

L'organo era noto per la sua incredibile bellezza e per la presenza di portelle lignee che lo decoravano con una scena dell'Annunciazione sullo stile che si ispirava al Beato Angelico, stando alle cronache degli Antoniani. Questo organo, che Mario Equicola descrisse nell'Iter in Narbonensem Galliam, era famoso presso i contemporanei anche per i suoi meccanismi automatizzati, degli automi musicali, che aggiungevano un aspetto unico alla sua bellezza e funzionalità.

Gli automi presenti in questo organo sono spesso rappresentazioni di figure religiose o angeli e si animavano probabilmente con l'ausilio di un meccanismo a molla che scattava al passaggio dell'aria dai mantici, muovendosi al ritmo della musica o a intervalli prestabiliti. Questi automi sono un omaggio alla maestria artigianale del costruttore, mantovano o comunque italiano, di organi del periodo, che riuscivano a integrare la tecnologia meccanica con l'arte sacra.

L'organo andato distrutto, fu sostituito nel XVII secolo con un imponente modello barocco, tuttora visibile in chiesa, dopo una lunga sosta a Grenoble.



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Medaglia di Mario Equicola. [2]



Riportiamo, di seguito, il testo in latino della descrizione dell’organo musicale di Saint Antoine l’Abbaye e dei suoi automi musicali, tratto dall’Iter in Narbonensem Galliam, e la relativa traduzione in italiano, realizzata da Domenico Santoro ne “Il viaggio di Isabella Gonzaga in Provenza”.



Dall'Iter in Narbonensem Galliam di Mario Equicola:


“Vidimus praeterea Musicum Ingens organum… hoc dum folles accipiunt redduntque animas, occultos per meatus ventus stanneas inflat fistulas, Sibilaque excitat arguta harum gradatim altera alteram magnitudine altitudineque superat, vocemque hac proportione emittunt canthes: tum stridulam Tinnientemque tum gravem atque plenam: Peritus artifex ut qui folles commovet minister posteriori stat sic ipse anteriori sedet parte Digitis modo expansis, remissis semper errantibus modo, bratteas premit dentato ordine dispositas, hinc fistularum foramina auras referata accipiunt, modulatusque editur sonus qui nunc continuo spiritu trahitur in longum, nunc variatur inflexo, nunc distinguitur conciso. Dum tollit manum clauduntur eadem, ventumque non admittentia silent, spiritus enim ubi deficit, dissolvitur statim Cantus, Quod ante nostram aetatem neque visum neque auditum est, ingeniosissimus adolescens nostras excogitavit, ut illa eadem inclusa anima diversos imitaretur musicae modos, redditusque imprimis clangor tubarum, Tibiarum quoque vox promittitur, revocatur, infuscatur, ac siquis erranti intonaret digito, strepit illic reboatque doliolo ligneo. Utrinque corium extensum barcillo pulsatum gemino, Credas ferocissimos rhetios aut duros helvetioscieri in praelia, Haec alios me vero praecipue oblectarunt Giganteae staturae capita duoquae inane, quod inter eminentiores humilioresque fistulas est, occupabant ea agitante vento, vitro lucentia lumina humanos imitantia oculos extollebant deprimebantque grata gravitate. Aperto ore linguam exertam celeri motu vibrabant, erant et sublimiori fastigio Icones, quae pariter Aura penetrante se movebant, Sed nihil ad Barbatos istos Gigantes quorum alter Ethiops, alter nostri erat generis.”



Dal “Il viaggio di Isabella Gonzaga in Provenza” di Domenico Santoro [1]:


"Vedemmo inoltre il grandioso organo musicale... Come i mantici accolgono ed emettono l’aria, il vento, suscitando arguti sibili, passa per occulti meati, entro canne metalliche, che, erette in ordine crescente per altezza e per grandezza, mandano, proporzionatamente, voce qua stridente e tinnula, là piena e grave. Or, mentre altri dal lato posteriore solleva e abbassa i mantici, l’esperto maestro che siede davanti, con le dita quando distese, quando ristrette, sempre erranti, preme i tasti disposti a forma di lamine in fila dentata; onde, aprendosi i fori delle canne, vi penetra il soffio e ne escono note armoniose, o lungamente tenute, o variamente modulate, o bruscamente rotte. Al levar delle mani, i fori si chiudono e, non lasciando più passare il vento, tacciono: mancando lo spiro, subito il canto. Ma - cosa non mai vista né udita prima di questi tempi – un ingegnosissimo giovine di nostra gente ha escogitato il modo di servirsi dell’aria stessa lì racchiusa per imitare diversi strumenti musicali: udresti così squillar le trombe, e la voce de’ flauti prolungarsi, arrestarsi, affiochirsi: se poi si pigia forte col dito su di un tasto, lo strepitare e il reboar di un tamburo, percosso da due bacchette, ti farebbe credere che i violentissimi Reti o i gagliardi Elvezii irrompano a battaglia. Di ciò si dilettaron gli altri; io rimasi specialmente ammirato di due teste gigantesche, collocate tra le canne più alte e le più basse: introducendosi nel loro cavo il vento, alzavano e reclinavano gravemente gli occhi vitrei, e, aperta la bocca, mettevan fuori e con celere moto vibravano la lingua. V’erano anche, al sommo, delle figure che, del pari, penetrandovi l’aria, si muovevano: un nulla in confronto di quei due giganti barbuti, l’uno di razza etiopica, l’altro di tipo nostrano."


Traduzione di Domenico Santoro 



[1] - Libro ristampato in anastatica da Arbor Sapientiae nel 2017, grazie al mecenatismo del dott. Gianni Iaquone, e presentato da Archeoclub Val di Comino il 29 aprile 2017 ad Alvito.

 [2] - Medaglia raffigurante il profilo di Mario Equicola. Museo di Storia dell'Arte di Vienna. Immagine tratta da: "Istruire e rappresentare Isabella d'Este. Il libro de natura de amore di Mario Equicola" di Alessandra Villa.



 
 
 

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