Il bicentenario della scomparsa di Napoleone Bonaparte
Ei fu. Così comincia “Il cinque maggio”. L’ode di Alessandro Manzoni ci ricorda che in questi giorni ricorre il bicentenario della scomparsa di una delle più grandi e controverse figure della storia contemporanea: Napoleone Bonaparte, l’Imperatore dei Francesi, moriva il 5 maggio 1821 sull’isola di Sant’Elena, in pieno Oceano Atlantico, in esilio. Tra le sue prime conquiste militari si annoverano l’Italia Transpadana e Cispadana e il Meridione peninsulare che costituirono la sua fortuna personale per ascendere al potere.
L’Archeoclub Val di Comino vuole ricordare la figura di Napoleone con una serie di articoli che riguardano gli impatti e le conseguenze del Decennio francese sui territori della nostra Valle.
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IL CIMITERO NAPOLEONICO DI FONTECHIARI
di Ferdinando Marfella
Muti e solitari,
conservati in cripte secolari,
giacciono accumulati i resti
di notabili dispersi e di poveri diavoli.
Un lungo urlo eterno di dolore,
li accoglie in un sol resto d’animale.
Quanto freddo in questo luogo.
Quasi vorrei conoscer la sorte
che ebber tali mortali.
Ossario,
sei custode silente
di quanti furono e sono muti resti,
falciati come spighe da nera, certa fine.
E mentre trascorrono lenti i giorni
e gli anni,
e i secolari lumi delle stelle,
sempre rifuggon la tua aula triste
quelli che, piangendo i loro cari,
ne ripetono i nomi
scritti su fredda pietra.
Ossario, di Ester Tullio
Nel 1836, a Schiavi, oggi Fontechiari (FR), fu presentato un progetto esecutivo per la costruzione fuori dal centro abitato di un cimitero di concezione napoleonica, oggi considerato quasi un unicum architettonico per l’Italia centro-meridionale [1].
Il complesso ha forma circolare del diametro esterno di 13 metri e si sviluppa su due piani. Il piano infossato era adibito ad ossario, mentre quello superiore era destinato a contenere otto cappelle gentilizie disposte a raggiera appartenenti ad importanti famiglie locali. Il chiostro è dotato di quattro botole nelle quali venivano fatti cadere i cadaveri di povera gente, avvolti in semplici sudari, se il defunto poteva permetterselo [2].
Il cimitero è sopravvissuto fino ad oggi a testimonianza di un periodo storico contraddistinto da elevata vulnerabilità igienico-sanitaria, a causa di frequenti epidemie per le quali non esistevano cure efficaci; nel corso della Seconda Guerra Mondiale il cimitero fu profanato dalle milizie tedesche che lo occuparono come avamposto militare, in quanto sorgeva in una posizione strategica a controllo della importante strada della Vandra tra Fontechiari e Casalvieri.
L’anno 1836 fu un anno critico dal punto di vista sanitario: una spaventosa epidemia di colera imperversò nel Regno di Napoli, arrivando dal Piemonte dove si era manifestato già dal 1835. Arrivava in realtà da molto più lontano, dall’India, dove era apparso già nel 1817 per propagarsi con i commerci. Ci furono due ondate di colera: la prima dall’ottobre 1836 al marzo 1837; la seconda dall’aprile all’ottobre 1837. La metà degli ammalati morì. Nell’archivio Borbone sono registrate più di cinquemila morti nella prima ondata e più di diecimila nella seconda.
Le notizie si susseguivano anticipando l’imminente arrivo della pandemia quando in ottobre del 1836 si verificarono i primi casi a Napoli. Già dall’agosto 1835, i Borbone avevano confermato i provvedimenti d’urgenza del governo. In quegli anni si sapeva poco sia del vettore della malattia, sia di possibili cure. Una delle misure d’emergenza varate per fronteggiare la pandemia consisteva nell’allontanare i sepolcri dalle chiese dei centri abitati.
Pochi mesi dopo, con l’esperienza del colera ancora ben viva negli occhi di tutti, a Fontechiari cominciarono i lavori per il nuovo cimitero. Il 20 febbraio 1838, il sindaco Giuseppe Ricciarelli diede avvio ai lavori in località Sant’Onofrio per un importo complessivo di 138 ducati. Il cimitero entrò in funzione solo il 12 maggio 1844 ma non fu inutile perché il colera tornò nel decennio successivo. Il cimitero restò operativo fino al 1888.
Nel parlare e nello scrivere a livello locale di quest’opera, interessante sotto il profilo architettonico, si fa spesso riferimento all’editto imperiale sulle sepolture (“Décret Imperial sur les Sépultures”), emanato il 12 giugno 1804 da Napoleone Bonaparte a Saint Cloud nell’Île de France che raccolse organicamente in due corpi legislativi tutte le precedenti e frammentarie norme sui cimiteri vigenti in Francia. L’editto stabilì che le tombe fossero tutte uguali e che venissero poste al di fuori delle mura cittadine, lontano dai sotterranei delle chiese che fino ad allora le avevano ospitate, in luoghi arieggiati e soleggiati. L’editto coniugava quindi motivazioni igienico-sanitarie con quelle politico-ideologiche di derivazione della Rivoluzione. L’allontanamento dei defunti dalle chiese aveva inoltre anche una chiara motivazione anticlericale, facendo passare una materia che da secoli era stata di pertinenza della Chiesa sotto la gestione dell’amministrazione civile. Il Codice civile napoleonico premeva spesso su questo tasto. In effetti, l’uguaglianza delle tombe le rendeva di fatto anonime, tranne per i casi di personaggi illustri per i quali una apposita commissione di magistrati decideva per l’epitaffio da scolpire. L’editto fu esteso al Regno d’Italia il 5 settembre del 1806 col nome “Editto della Polizia Medica”, scatenando un intenso ed acceso dibattito tra i letterati dell’epoca: tutti ricordiamo il Carme dei Sepolcri di Ugo Foscolo del 1807.
Il Regno di Napoli nel periodo dal 1805 al 1815 era considerato uno stato vassallo da Napoleone. I Borbone erano stati allontanati da Napoli riparando in Sicilia sotto la protezione degli Inglesi. Le truppe francesi avevano occupato la parte peninsulare del regno borbonico e vi erano saliti al trono prima il fratello Giuseppe Bonaparte e poi, dal 1808, l’allora fidato genero Gioacchino Murat.
Come già scritto, la situazione di emergenza del 1836 era contrastata da iniziative speciali del governo borbonico, tra cui l’allontanamento dei sepolcri dalle chiese nei centri abitati. Il Codice civile napoleonico era stato integrato nelle leggi borboniche, contrariamente ad altri contesti degli stati italiani che con la Restaurazione avevano fatto un passo indietro all’Ancien Régime.
Nonostante ciò, il Regno di Ferdinando IV di Borbone aveva già dato nel 1762 un esempio di gestione moderna per risolvere il problema igienico delle sepolture. Il Re sostenne la proposta fatta dall’ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, dando incarico all’architetto Ferdinando Fuga della costruzione del cimitero di Santa Maria del Popolo a Napoli, detto “delle 366 fosse”: una fossa comune per ogni giorno dell’anno, compreso il bisestile. Concepita per far fronte al continuo rischio di epidemie, una tale opera dava un’indicazione della povertà diffusa nella capitale del Regno, tale da richiedere un approccio razionalistico al problema. Il cimitero delle 366 fosse fu di fondamentale utilità durante la pandemia di colera del 1836 per poter allontanare e depositare i numerosissimi colerosi deceduti, veicolo di contagio.
Nello stesso Regno di Napoli prenapoleonico, in Calabria Ulteriore, nel 1783 vi fu un devastante terremoto. La Cassa Sacra, magistratura istituita dai Borbone in seguito al sisma, diede un grande contributo alla progettazione di cimiteri in Calabria, molto prima dell’editto napoleonico di Saint Cloud. La ricostruzione post-terremoto venne affidata al Corpo degli ingegneri militari dell’esercito borbonico che adottò soluzioni innovative per l’epoca sia dal punto di vista igienico-sanitario che antisismico. In tali soluzioni progettuali si allontanavano dalle chiese e dalle città i cimiteri per la prevenzione e il contenimento di rischio di epidemie. C’era anche il tentativo da parte delle autorità borboniche di ridurre privilegi ecclesiastici, le manimorte ecclesiastiche, imponendo che la gestione delle donazioni e successioni testamentarie passasse per gli apparati statali. A tale scopo il primo ministro Bernardo Tanucci aveva fatto introdurre già tra il 1767 e il 1776 una serie di riforme per l’eliminazione di privilegi feudali che comportavano perdite per le finanze reali [3].
Nel Regno di Napoli, insomma, l’editto napoleonico arrivò a dare ordine ad una legislazione frammentaria, ma l’amministrazione borbonica non aveva di certo atteso l’editto di Saint Cloud per dare una soluzione razionale all’igiene delle sepolture, lontano dalle chiese, anche per ridurne i privilegi. L’apporto originale dell’editto napoleonico consisteva nel dare connotazione politico-ideologica al tipo di sepoltura con riferimento agli ideali di derivazione rivoluzionaria, ancora in piedi con Napoleone e Murat, nonostante fosse già ben lontano il tempo dei giacobini.
In continuità col periodo murattiano, con la legge dell’11 marzo 1817 il Re Ferdinando I delle Due Sicilie [4] impose ai comuni la costruzione di camposanti in campagna. La norma non fu sempre rispettata perché si contano numerosi i casi di cimiteri siti presso le chiese, facendo riferimento alla sola Val di Comino, anche per la volontà della popolazione dell’epoca. Era viva in tutte le classi sociali la necessità di avere un contatto tangibile con la fede per assicurare che la sepoltura dei defunti fosse materialmente più vicina al sacro. Il colera del 1836 fece rispolverare la norma per affrontare la sopraggiunta emergenza pandemica.
A Schiavi, nel 1836, era stata dunque adottata dal progettista un’architettura del cimitero di derivazione napoleonica che nell’applicazione della norma, però, faceva ampio riferimento alle consuetudini e agli esempi già presenti nel regno borbonico. Vi era la particolarità di vedere da un lato le cappelle gentilizie delle famiglie illustri e dall’altro le fosse comuni in cui la povera gente veniva seppellita in fretta e furia per contrastare la pandemia di colera [5] [6].
Tale cimitero può essere definito “napoleonico” perché si fa riferimento alla formalizzazione delle norme cimiteriali del Codice civile napoleonico, mentre è stato progettato e costruito in periodo borbonico con le leggi e disposizioni del tempo. Il monumento ci ricorda quanto, a quei tempi, fosse difficile fronteggiare epidemie in assenza di adeguate armi di difesa.
NOTE
[1] In zona, presso il comune di Terelle in località Castagneto, troviamo un mausoleo costruito intorno al periodo napoleonico che ne osservava alcuni principi e regole della vigente legislazione igienico-sanitaria. A pianta rettangolare e realizzato in blocchi di pietra squadrata, esso è più semplice a livello architettonico rispetto a quello di Fontechiari.
[2] “Val di Comino una piacevole scoperta”, opuscolo della XIV Comunità Montana “Valle di Comino”, p. 66, anno 2004.
[3] MIBACT, “La Cartografia dei secoli XVIII e XIX dell'Archivio di Stato di Catanzaro”, Archivio di Stato di Catanzaro.
[4] Lo stesso Ferdinando IV di Borbone del Regno di Napoli e Ferdinando III del Regno di Sicilia che aveva cambiato titolo a valle del Congresso di Vienna. I Borbone avevano riottenuto il territorio del proprio regno, con esclusione di Malta, presa dagli Inglesi, e dello Stato dei Presidi in Toscana, passato al Granducato.
[5] Gigi Fiore, Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il colera, 2020, UTET.
[6] L’Archeoclub Val di Comino ha trattato il tema della sanità locale nell’Ottocento in conferenze tenute dai soci nel febbraio e in giugno 2018. Fu fatto riferimento anche alle pandemie di colera che imperversarono in quel secolo a causa delle scarse condizioni igienico-sanitarie e per l’assenza di cure basate su antibiotici.
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